Millenovecentosessantuno, sei di mattina. Da Cesa ad Arezzo in un autobus pieno di fumo. Eta? 14 anni. La guerra è ormai lontana e il boom economico è alle porte. Gianfranco Ceccarelli lascia all’alba la sua casa della Valdichiana e va alla scoperta della città. “Eravamo tre ragazzi e ogni giorno, prima o dopo il lavoro, facevamo nuove strade. Un po’ timorosi e un po’ curiosi”. Il lavoro era in uno dei primi laboratori orafi di Arezzo. “Allora si lavorava fianco a fianco con un dipendente esperto. Quindi un apprendista e un operaio qualificato. Lo seguivo passo passo, cercando d’imparare. Si facevano semilavorati, ovviamente senza macchine. In un ambiente piccolo e angusto che non aveva nemmeno il bagno. Quando ne avevamo bisogno, uscivamo e suonavamo il campanello del laboratorio vicino”. Erano gli anni dell’avventurosa costruzione di “Arezzo città dell’oro”. Erano gli anni della grande UnoAErre, ma anche quelli delle piccole e piccolissime imprese artigiane. “Noi apprendisti, ma anche gli operai dell’artigianato guardavamo alla grande fabbrica come ad una specie di sogno: lì gli operai guadagnavano quasi il doppio di noi”. Nel 1967 Ceccarelli lascia il suo pullman fumoso e il suo laboratorio senza bagno e va sotto le armi a Roma. Quando torna è operaio, ma resiste per poco. “Non si guadagnava veramente niente e allora tanto valeva provare a mettersi in proprio. Il mestiere lo avevo imparato. Si faceva stampaggio e si lavorava come contoterzisti”. La fine degli anni settanta e i primi anni ottanta sono il periodo aureo del settore. “Cambia la mia attività. Dopo la fase iniziale, cominciai a fare l’intero ciclo della produzione: dalla fusione alla finitura. E alla metà degli anni ottanta abbinai la lavorazione dell’oro a quella che avevo sempre fatto e cioè l’argento. Le banche ci spalancavano le porte con il prestito d’uso e ad Arezzo arrivava un’incredibile quantità d’oro. Gli interessi erano molti bassi e quindi potevamo avere l’oro necessario per lavorare. E si lavorava molto. L’esempio che posso fare è la mia partecipazione alla prima fiera orafa di Arezzo: durò tre ore. Il tempo di aprire e di allestire la vetrina quando si presentarono alcuni compratori statunitensi che acquistarono tutto quello che avevo portato al Centro Affari”. Per vendere non era necessario andare molto lontano. “Per il mercato del Mezzogiorno era sufficiente arrivare a Pescara. E si vendeva al sud del Paese”. Si tocca l’apice della storia dell’oro aretino e inizia la discesa. Una lunga fase di crisi che ancora non ha toccato il fondo.

“In cinquanta anni di lavoro ho visto la nascita del settore, il suo culmine e la sua crisi – conclude Ceccarelli. Quello che tutti quanti abbiamo realizzato è un grande patrimonio di professionalità che oggi rischia di andare perduto. Negli anni sessanta chi veniva licenziato suonava il campanello dell’azienda vicina e si rioccupava. Chi lasciava la grande impresa, ne creava una molta più piccola ma egualmente efficiente, specializzata nella fase produttiva che l’ex operaio svolgeva in fabbrica. I laboratori vedevano l’impegno di tutta la famiglia ed anche molti operai lavoravano fino a notte inoltrata. In questo modo si è creata la ricchezza non solo del settore ma anche di Arezzo”. La crisi? “Ha motivazioni internazionali. Non possiamo pensare di spiegarla guardando il nostro ombelico. Certo anche noi abbiamo le nostre responsabilità. C’è chi non ha investito, chi non ha diversificato, chi ha pensato che il mondo non cambiasse mai. Sono stati fatti molti errori. Molti nostri, alcuni anche delle istituzioni. Se tutti avessero compreso, ad esempio, il valore della scuola orafi costretta recentemente alla chiusura, probabilmente non avremmo tagliato i ponti con la creazione di nuove professionalità e quindi con il futuro. Ma sono ottimista: quello che abbiamo creato in 50 anni non andrà mai perduto. Certo non dimenticheremo la nostra storia, ma vogliamo anche avere un futuro. Per noi, per i nostri figli, per la ‘città dell’oro’”.