Un quadro a luci e ombre: tante le imprese ancora impegnate in processi di transizione. La ricerca è stata presentata venerdì 7 febbraio al Museo del Tessuto di Prato. E’ intervenuto fra gli altri il presidente di CNA Toscana Centro Claudio Bettazzi.
Una ricerca, condotta su più di 180 aziende del settore della moda, del tessile e dell’abbigliamento, in maggior parte del distretto pratese, per capire l’impatto delle tecnologie Industria 4.0 nei processi produttivi. Curata da un gruppo di ricerca interdipartimentale dei tre Atenei toscani, è stata presentata venerdì 7 febbraio al Museo del Tessuto di Prato. E’ stata l’occasione anche per approfondire, insieme ai referenti delle Università che hanno curato il lavoro e ai rappresentanti toscani delle associazioni di categoria e della rappresentanze sindacali, alcuni aspetti specifici che connotano queste filiere e fare il punto sulle prospettive del comparto.
L’esposizione degli aspetti generali e dei modelli di business è stata curata dal professor Lorenzo Zanni dell’Università di Siena. Subito dopo il professor Mauro Lombardi dell’Università di Firenze ha fatto un approfondimento sul settore tessile-abbigliamento. E’ seguita una tavola rotonda con l’ assessore al bilancio, sviluppo economico, innovazione e agenda digitale del Comune di Prato Benedetta Squittieri, il presidente di CNA Toscana Centro Claudio Bettazzi, il presidente di Confartigianato Imprese Prato Luca Giusti, il vicepresidente di Confindustria Toscana Nord Francesco Marini, il segretario CGIL Prato Lorenzo Pancini, Rodolfo Zanieri UIL Prato e Mirko Zacchei CISL Firenze e Prato. Le conclusioni sono state a cura dell’assessore regionale alle attività produttive, Stefano Ciuoffo.
Articolato
in 4 macro-sezioni, il rapporto offre un’interessante analisi del grado di
maturità tecnologico-gestionale delle imprese toscane, a partire dalla mappatura
delle tecnologie abilitanti e delle competenze digitali maggiormente diffuse
presso le aziende, passando attraverso l’osservazione dei modelli di business e
delle performance delle imprese e degli strumenti maggiormente coinvolti (e
usati) nell’accompagnare le stesse imprese verso Industria 4.0 a livello
settoriale e di filiera. I dati sono stati raccolti attraverso questionari strutturati di
assessment tecnologico e successivi focus group che hanno coinvolto 163 imprese
delle Province di Prato, Pistoia e Firenze, cuore dei distretti regionali della
moda. “Il quadro che affiora – ha commentato l’assessore Stefano Ciuoffo – è
complesso e a luci ed ombre: il sistema sembra posizionarsi in una fase di
transizione sia in termini di processo di trasformazione sia in termini di
numero di imprese che hanno avviato il percorso verso il paradigma 4.0. Diviene
necessario accelerare nei tempi e nelle forme lungo tutta la filiera, in un
contesto non sempre favorevole in cui alla fase della crisi finanziaria ne è
succeduta una di incertezza dei mercati”.
I risultati dell’indagine
A conferma del risultato di altri settori del manifatturiero
regionale, anche nel tessile, a fronte di imprese che hanno avviato i processi
di transizione, si registrano alcuni ritardi di altre nel fronteggiare le sfide
di Industria 4.0: in media i valori di evoluzione tecnologica 4.0 delle PMI
indagate si collocano nella scala di valutazione in una posizione intermedia,
con alcuni comparti su livelli ancora non sufficienti. I ritardi riguardano in
particolare l’area dell’organizzazione.
Il valore dell’indice I4.0 del settore, in una scala da 1 a 6, è 2,49 e colloca
le aziende tra beginner (stanno conducendo progetti pilota I 4.0) e
intermediate (hanno cambiato orientamento strategico e stanno sviluppando una
strategia I 4.0). Un valore che dipende soprattutto da una non ancora
sufficiente crescita della cultura imprenditoriale, comunque da sempre abituata
alla competizione internazionale, e da un insufficiente cambiamento della
struttura organizzativa, necessaria nei processi di transizione al digitale,
elemento trasversale a tutte le filiere del tessile-abbigliamento, ma con punte
maggiori nel comparto delle filature. Poco oltre il 51% delle aziende opera nel
tessile in senso stretto (filatura, tessitura, finissaggio-nobilitazione),
circa il 22% nel tessile nonwoven (moquette, materiali diversi dalle fibre
tessili, ecc.) e il restante 27% nella maglieria e nelle confezioni.
L’utilizzo di metodologie di pianificazione delle attività di trasformazione e,
più in generale, della catena di distribuzione è basso. Gestione dei flussi
materiali: quasi il 60% delle aziende non dispone di applicazioni dedicate alla
gestione dei magazzini. Solo in casi molto particolari e in aziende più
strutturate rispetto alla media è previsto l’utilizzo integrato di magazzini
automatici ed un’integrazione tra il software di gestione magazzino e il
gestionale per ordini e scorte, a conferma della scarsità di flussi informativi
tra i reparti. Nonostante la mancata automazione, la tracciabilità sembra
essere un elemento rilevante, soprattutto per le imprese di tessuti
particolarmente pregiati, e che lavorano sulla committenza di grandi griffe,
che lo considerano elemento strategico per il futuro, sia in termini di
sicurezza dello spostamento dei carichi che, soprattutto, per la possibilità di
garantire un prodotto ‘certificato’, o per la provenienza di lavorazioni ‘made
in Italy’ o per l’attestazione di produzioni green.
La mancata conoscenza dei processi interni è piuttosto diffusa: il 17% dichiara
di non effettuare alcuna mappatura dei processi e l’8% ammette di non sapere
nemmeno di cosa si tratti. Solo il 30% delle imprese dichiara un approccio di
tipo ‘data-driven’, in cui cioè gli operatori utilizzano tutta l’informazione
oggettiva disponibile per modificare o eseguire i propri compiti. Infatti,
nonostante il 68% delle imprese dichiari di effettuare l’analisi dei dati
storici, solo il 20% ne utilizza i risultati in fase di controllo o di
pianificazione delle successive progettazioni.
Un’azienda su 3 non conosce il termine business model, ovvero ciò che descrive,
a caratteri generali, come l’azienda crea e cattura valore. Anche quando è
conosciuto lo è, in più della metà delle imprese intervistate, principalmente a
livelli dirigenziali/gestionali. Prevale ancora un sistema di direzione
‘intuitiva’: il modello di gestione non ha obiettivi sempre ben definiti oppure
non ben formalizzati e comunicati solo oralmente, finendo per condizionare le
strategie di sviluppo che nel 42% dei casi sono definite solo verbalmente;
prevale un approccio più ‘reattivo’ e una logica di governo maggiormente
operativa, piuttosto che una strategia di più lungo respiro e ben codificata.
Solo 1 azienda su 3 tende a definire le strategie in modo digitale. Da un punto
di vista organizzativo, la quasi totalità delle imprese ha un sistema
decisionale di tipo centralizzato, tipico delle PMI, spesso a conduzione
familiare.
Il lavoro in team riguarda il 44% delle aziende, nel 7% dei casi è individuale
e nel restante è misto. Oltre 2 aziende su 3 producono per lotti. Il settore
sostanzialmente si divide tra aziende che producono alti volumi con alta
varietà (45%) e aziende che producono bassi volumi con alta varietà (42%). La
mappatura dei processi aziendali, che in uno scenario di crescente
digitalizzazione è cruciale, non solo per la funzione di produzione ma per
tutta l’impresa, viene svolta in digitale solo da 4 imprese su 10. Lo stesso
vale anche per un’altra attività chiave, la ricerca e sviluppo (R&S),
effettuata solo dal 40% delle aziende. Il motivo? Le imprese la ritengono non
necessaria in quanto eseguita da soggetti a monte della catena di distribuzione.
L’innovazione aperta è un nuovo approccio strategico e culturale in base al
quale le imprese, per creare più valore e competere meglio sul mercato,
scelgono di ricorrere non più e non soltanto a idee e risorse interne, ma anche
a idee, soluzioni, strumenti e competenze tecnologiche che arrivano
dall’esterno, in particolare da startup, università, istituti di ricerca,
fornitori, inventori, programmatori e consulenti. Nel settore solo 3 imprese su
10 adottano R&S in questa ottica, il restante non lo reputa rilevante. La
maggior parte, il 69%, non ha un archivio storico delle attività di marketing
svolte: tra le motivazioni, è un’attività non presente e di bassa rilevanza per
il mercato di riferimento.