Alla diciassettesima edizione di EXPOdetergo International (3/6 ottobre, Fiera Milano – Rho), CNA Tintolavanderie dedica il suo stand alla professione del lavandaio tra storia e cultura: Giovanni Molinari, presidente delle tintolavanderie di CNA Toscana e dirigente nazionale di settore, ha ricostruito la storia della cura delle stoffe e della lavatura dei panni a Bagno a Ripoli, in provincia di Firenze, dove questo mestiere è diffuso fin dal Medio Evo e ha rappresentato l’economia trainante del territorio.

Alla diciassettesima edizione di EXPOdetergo International, la manifestazione dedicata a macchine, tecnologie, prodotti e servizi per lavanderia, stireria e pulizia del tessile, in programma dal 3 al 6 ottobre 2014 a Fiera Milano (Rho) con la partecipazione di oltre 250 aziende di ogni continente, CNA Tintolavanderie dedicherà il suo stand al tema della professione del lavandaio declinato tra storia e cultura.
Attraverso foto, documenti e l’esposizione di alcuni strumenti professionali storici e tipici, in particolare ferri da stiro, nello stand CNA sarà possibile seguire un percorso virtuale che accompagna i visitatori nella conoscenza di un fenomeno economico e sociale, non unico in Italia, ma pur sempre emblematico ed interessante, quello – cioè – di un mestiere interamente fuso con il destino di un territorio.

CNA ha infatti ricostruito la storia della cura delle stoffe e della lavatura dei panni in un paese in cui, grazie alla confermazione territoriale, questo mestiere è diffuso fin dai primi anni del ‘400 tanto da diventare l’attività peculiare e tanto da dedicare anche una statua alla ‘lavandaia’. Stiamo parlando del comune di Bagno a Ripoli, in provincia di Firenze. Si tratta di un impegno curato in prima persona da Giovanni Molinari,Giovanni Molinaripresidente delle tintolavanderie di CNA Toscana e dirigente nazionale di settore, con la preziosa collaborazione dell’amministrazione comunale della città che ha messo a disposiziodoc1ne la documentazione storica sulle radici di questo antico mestiere per l’allestimento dello stand. Il Comune di Bagno a Ripoli ha anche dato il patrocinio all’iniziativa.

 

“Nel 2014, nella più importante Fiera internazionale di settore dove lo sviluppo tecnologico applicato la fa da padrone, consapevoli che gli espositori avrebbero messo in mostra le nuove tecnologie, i nuovi prodotti e i materiali che determinano il mercato della moderna professione di tinto lavanderie – spiega Molinari – CNA ha voluto indagare sulle radici storiche e culturali di un mestiere là dove si sono mescolate con le stesse radici di un territorio che ha fatto di questo mestiere il suo “essere comunità”.

E Bagno a Ripoli affonda le radici nel connubio interdipendente tra territorio e mestiere, appunto il lavoro del lavandaio, fin dal Medio Evo: la curatura delle stoffe e la lavatura dei panni è documentata fin dai primi anni del Quattrocento, in particolare nella zona di Rimaggio attraversata dall’omonimo affluente di sinistra dell’Arno. Una villa della zona era addirittura chiamata popolarmente Villa delle Cure, poiché in un fabbricato annesso si svolgeva ancora nel secolo scorso l’antica attività del curandaio, ‘colui che cura i panni’, sbianca e ammorbidisce i tessuti ed in particolare le pezze di lino che allo stato grezzo erano ruvide e giallognole, operazione che consentiva contemporaneamente di sterilizzare i panni grazie al ranno e all’acqua bollente.
L’inchiesta industriale del 1768 ci permette di sapere, attraverso i documenti dei deputati della Lega del Bagno a Ripoli, che proprio in questo territorio, più impegnato di altri in tale attività, si curavano tele di diversa qualità per i mercanti fiorentini: annualmente venivano trattate 280 tele lunghe dalle sessanta alle oltre cento braccia ciascuna, per una lunghezza totale che superava i ventimila metri lineari. Nel 1781 si contavano quindici curandai concentrati nel triangolo Quarto-Candeli-Vicchio di Rimaggio, sempre nel comune di Bagno a Ripoli.
Con il trascorrere degli anni l’attività ha subito un processo di trasformazione così che verso la metà dell’Ottocento, abbandonata la curatura delle tele, ci si concentrò sempre più sul bucato, lavando biancheria e indumenti della borghesia fiorentina. Il periodo di Firenze capitale d’Italia fece esplodere il fenomeno, che divenne assai vistoso anche sull’Ema nella zona di Grassina, anche questa frazione di Bagno a Ripoli, tanto che al censimento del 1871 si contavano in questo comune ben 404 addetti (163 maschi e 241 femmine) di cui 161 esercitavano l’attività per conto proprio e 243 per conto altrui a fronte dei 339 (112 maschi e 227 femmine) censiti dieci anni prima.

Considerando la demografia dell’epoca, questi numeri dimostrano con evidenza che l’economia trainante di quel territorio era fortemente concentrata sull’attività del lavandaio, che veniva effettuata sia da donne che da uomini.

Sia che lavassero i panni propri o quelli degli altri, all’epoca i lavandai facevano largo uso del ranno fatto in casa e ottenuto facendo passare acqua bollente attraverso la comune cenere prodotta nel focolare domestico; il ranno e i panni venivano posti in una conca di terracotta, chiamata conca da bucato perché sul fondo aveva un’apertura. Attraverso quel foro si recuperava il ranno che, scaldato ancora sul fuoco, veniva versato di nuovo nella conca nella quale erano stati sistemati i panni da lavare, con un ciclo di riempimenti e svuotamenti che richiedeva un’intera mattinata di lavoro.
I panni così tenuti a mollo, venivano estratti dalla conca, riposti in cesti di canne o di sbrocchi d’olivo – talvolta era semplicemente un lenzuolo che faceva da contenitore per il trasporto – e si andava al fiume a lavarli per sfognare i lenzuoli, sbattendoli ripetutamente nell’acqua, e sciacquare l’altra biancheria. Questa operazione era fatta soprattutto in riva a un corso d’acqua, poiché i viai erano poco diffusi in campagna, a meno che non si trattasse di zone dove la lavatura dei panni era una vera e propria attività organizzata.
Sia al viaio, sia al fiume, i panni venivano stropicciati con sapone per lo più fatto in casa con grassi animali, pezzi di sugna e soprattutto morchie cui si univa soda caustica e pece greca, il tutto bollito in una caldaia e poi fatto raffreddare in un contenitore basso.

Grassina, frazione di Bagno a Rivoli, fino ad inizio del secolo scorso era nota come “il paese delle lavandaie” in quanto la vicinanza a due torrenti, l’omonimo Grassina e l’Ema, permetteva di ricevere numerosi capi di biancheria dalle famiglie benestanti fiorentine.
La “cultura lavandaia” per secoli ha distinto i grassinesi. Le lavanderie, chiuse negli anni sessanta a causa della diffusione delle lavatrici, operavano principalmente nello storico quartiere della Mestola, dove le case si affacciano sul torrente Grassina.
Il fulcro delle attività delle donne grassinesi era il chiassolo (piccolo chiasso, ovvero piazzetta) su cui appunto sorgevano le abitazioni dei vecchi lavandai. A Grassina sono ancora presenti gli strumenti del mestiere simbolo di questa frazione: i viai, i caloriferi e le prime lavatrici, dette volgarmente canarone, che consistevano in grossi cilindri al cui interno venivano posti i panni da lavare, e i tòrci, una sorta di cestelli che tramite la forza centrifuga asciugavano i panni.

Questi strumenti sono il lascito dell’ultima fase dell’attività dei lavandai, donne e uomini che trascorrevano la maggior parte del tempo in ginocchio sui greti dei fiumi con cenere o sapone, esposti alle intemperie. I lavandai si occupavano anche del trasporto della biancheria pulita per la restituzione alla clientela cittadina, utilizzando dei carri (“barrocci“) trainati da muli o asini.
Nelle vicinanze del paese c’è la Fonte della Fata Morgana, fatta costruire nel tardo Cinquecento dalla famiglia Vecchietti nel parco della propria villa e che si pensa fosse utilizzata come sito di bivacco per i lavandai che andavano a Firenze a riconsegnare la merce.
A testimonianza dell’importanza e diffusione del mestiere di lavandaio, una statua di bronzo a grandezza naturale che rappresenta una lavandaia nell’atto di sciacquare i panni è il monumento che domina nella principale piazza del paese. L’autore della statua è lo scultore Silvano Porcinai, nato a Grassina e, ironia della sorte (!?), proprio del quartiere della Mestola.

La statua della lavandaia che si trova a Grassina, frazione del Comune di Bagno a Ripoli (Firenze)

la statua della lavandaia

 

 

 

 

 

“Avvicinandosi ai tempi nostri – continua Molinari – fa sorridere con un pizzico di nostalgia la genesi dello strumento principe della moderna professione della lavandaia: la lavatrice”.
La lavatrice moderna, inventata in America nel 1906, assemblando un mastello di legno con una pompa da giardino, modificata nel 1930 dall’industria Miele (ancora attiva nel campo degli elettrodomestici) variando il primo movimento sussultorio continuo in un movimento ondulatorio circolare e reversibile, arrivò in Italia per la prima volta, nell’aspetto e con la tecnologia simile a quella che conosciamo oggi, nel 1946 alla fiera di Milano. All’inizio, a causa della grande quantità di schiuma che produceva, fu scambiata per una macchina che serviva a montare la panna. La lavatrice, con grandi difficoltà dovute principalmente alle scarse disponibilità economiche delle famiglie e alla diffidenza delle donne verso qualunque dispositivo che sostituisse la loro abilità manuale, cominciò lentamente a diffondersi verso la fine degli anni ’50, creando così un’alternativa ad un antichissimo mestiere.

“Ovviamente il lavaggio professionale non esce di scena – conclude la sua analisi storica il presidente delle tintolavanderie – anzi si va specializzando in divere direzioni di mercato e, oltre a quello familiare, si consolida il lavaggio mirato a dare un servizio alle imprese operanti in altri settori e quello di tipo industriale. In questo percorso è nato e si è sviluppata di una vera e propria attività imprenditoriale lavaggio professionale che, con fasi alterne e varie vicissitudini, contraddistingue una delle tante attività economiche di servizio nella società contemporanea.